🏛️ ELOGIO DELLA LENTEZZA Quando la Diffidenza Diventa Saggezza
- Giano di Vico

- 5 nov
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 10 nov
Ovvero: perché Viterbo non ha bisogno di salvatori, ma di chi sa ascoltare

C'è una frase che a Viterbo si sente spesso, pronunciata con un misto di frustrazione e sufficienza: "I viterbesi non capiscono". La si ascolta nei bar del centro storico, nelle riunioni pubbliche, nei progetti che promettono rivoluzioni. La dicono i giovani che vogliono andarsene, i politici che non vengono rieletti, gli imprenditori che falliscono, gli intellettuali che si sentono incompresi. E soprattutto la dicono quelli che tornano da fuori – da Roma, da Milano, dall'estero – carichi di esempi e paragoni, convinti che basti mostrare "come si fa altrove" perché Viterbo si svegli dal suo torpore millenario.
Eppure, camminando per via San Pellegrino o sostando in piazza del Plebiscito, sorge un sospetto: e se fossero proprio loro a non capire? E se quella che viene liquidata come resistenza al cambiamento fosse in realtà una forma raffinata di intelligenza collettiva?
🏺 La memoria lunga dei popoli antichi
Viterbo non è nata ieri. Le sue radici affondano nell'epoca etrusca, quando queste terre già conoscevano l'arte della metallurgia e della ceramica, costruivano necropoli che ancora oggi stupiscono per ingegneria e bellezza, amministravano sistemi idraulici complessi. Quando Roma era ancora un villaggio di capanne sul Palatino, la Tuscia era già civiltà.
Poi vennero i Romani, poi i Longobardi, poi i Papi. Viterbo è stata capitale dello Stato Pontificio, ha ospitato il conclave più lungo della storia (quello che elesse Gregorio X dopo quasi tre anni di stallo), ha visto nascere e morire imperi, mode, rivoluzioni. Ha attraversato 27 secoli senza mai scomparire.
Questa longevità non è un caso. È il risultato di una capacità ancestrale: saper distinguere ciò che dura da ciò che passa.
I viterbesi hanno imparato – a proprie spese, attraverso secoli di dominazioni, promesse mancate, progetti falliti – che non tutto ciò che luccica è oro. Hanno sviluppato un radar naturale per i ciarlatani, quegli entusiasti di passaggio che arrivano con soluzioni miracolose, parlano tanto, promettono molto, e poi svaniscono lasciando debiti e macerie.
Questa diffidenza non è ignoranza. È saggezza sedimentata.
🔥 Santa Rosa: la tradizione che non delude mai
Vogliamo parlare di continuità? Di un progetto che "funziona"?
Santa Rosa, il 3 settembre, da 770 anni, non delude mai. Nessun comitato tecnico-scientifico, nessun consulente esterno, nessun "esperto di eventi". Solo Facchini, artigiani, volontari, quartieri che si tramandano il sapere di generazione in generazione.
Novanta quintali di ferro, legno e cartapesta portati a spalla per le vie del centro storico, tra ali di folla che non mancano mai l'appuntamento. Un'organizzazione spontanea, democratica, popolare che ogni anno produce un capolavoro effimero di arte, ingegneria e devozione.
Nessun brand manager potrebbe replicarlo. Nessun influencer potrebbe venderlo meglio.
Funziona perché è autentico, perché è radicato, perché appartiene davvero alla comunità. Non ha bisogno di marketing: è già nella pelle di chi lo vive.
Questo è il genio di Viterbo: quando qualcosa è vero, quando nasce dal basso, quando risponde a un bisogno profondo della comunità, allora dura. E dura secoli.
💎 Le nicchie di eccellenza: cultura che resiste al tempo
Mentre il mondo corre verso l'omologazione – stessi negozi, stesse piazze, stesso cibo industriale ovunque – Viterbo conserva nicchie di eccellenza che altrove sono scomparse.
La cultura etrusca: musei, necropoli, siti archeologici custoditi e studiati con cura. Non sono "attrazioni turistiche" da selfie compulsivo. Sono testimonianze di una civiltà che questa terra ha metabolizzato nel suo DNA.
L'architettura medievale: un centro storico autentico, non ricostruito, non plastificato per turisti. Case, fontane, chiese, palazzi che hanno attraversato guerre, terremoti, mode architettoniche senza perdere la propria identità. Il profferlo viterbese, le scale esterne, le bifore, i loggiati: un linguaggio architettonico unico che parla ancora oggi.
La cultura culinaria: acquacotta, fiori di zucca, lombrichelli, castagne, nocciole, olio extravergine. Non sono "prodotti tipici" confezionati per il mercato del folklore. Sono cucina vera, povera, stagionale, legata alla terra. Piatti che le nonne ancora preparano come cent'anni fa, tramandandosi ricette a voce, senza food blogger e stellette Michelin.
Le arti e i mestieri: ancora oggi a Viterbo ci sono artigiani che lavorano la pietra, il ferro, il legno con tecniche antiche. Non per nostalgia, ma perché funzionano. Perché certi saperi manuali, certe conoscenze tecniche, non possono essere sostituite da app e tutorial su YouTube.
Tutto questo non è "folklore per turisti". È identità viva, tramandata con cura precisamente perché i viterbesi hanno imparato a diffidare delle mode passeggere.
🐌 Lentezza come resistenza
Nel mondo contemporaneo, la velocità è diventata un feticcio. Tutto deve essere "rapido": comunicazione, cibo, relazioni, successo. Le città competono per essere "smart", "innovative", "connesse". Si corre verso il futuro senza sapere bene dove si stia andando, pur di non restare indietro.
Viterbo, invece, si prende il suo tempo.
Non è pigrizia. Non è arretratezza. È una forma sottile di resistenza culturale.
Mentre altrove i centri storici vengono svuotati e trasformati in musei a cielo aperto o in parchi giochi per turisti mordi-e-fuggi, Viterbo ancora ci vive dentro. Ci sono negozi di quartiere, botteghe artigiane, famiglie che abitano da generazioni negli stessi palazzi. Il centro storico non è un set cinematografico: è un organismo vivo.
Questa lentezza preserva le relazioni umane. Il barista che ti conosce per nome. Il fornaio che sa cosa prendi di solito. L'anziano seduto sulla panchina che racconta storie. Sono questi piccoli gesti, queste reti invisibili di socialità, che fanno di un luogo una comunità.
La fretta omologa. La lentezza differenzia.
E in un mondo che sta scoprendo sulla propria pelle i costi della velocità a tutti i costi – ansia collettiva, depressione, perdita di senso, crisi ambientale, superficialità relazionale – forse la lentezza viterbese non è un difetto da correggere, ma un valore da proteggere.
🪤 La trappola della superficialità
Ogni mese spunta un nuovo "evento" che promette di "mettere Viterbo sulla mappa". Arriva qualcuno con slide colorate, strategie social, partnership internazionali. Parla di potenziale inespresso, di occasioni perdute, di come "altrove" si fa meglio.
I viterbesi ascoltano, educati. Sorridono. Annuiscono. Poi tornano a casa e aspettano. Aspettano di vedere se dietro le parole c'è sostanza. Se dopo l'evento di inaugurazione, ci sarà un lavoro quotidiano. Se chi promette tanto sarà ancora qui tra un anno, o se sarà già altrove a vendere la stessa ricetta miracolosa a un'altra città.
Spesso, purtroppo, hanno ragione ad aspettare.
Perché la superficialità contemporanea produce eventi, non istituzioni. Produce like, non relazioni. Produce entusiasmi stagionali, non progetti duraturi.
I viterbesi lo sanno, perché lo hanno visto troppe volte. Per questo non si entusiasmano facilmente. Non perché siano cinici, ma perché hanno imparato – attraverso secoli di storia – che ciò che dura si costruisce lentamente, dal basso, con pazienza.
🔨 Chi critica, raramente costruisce
C'è un paradosso interessante: quelli che più criticano "i viterbesi che non capiscono" sono spesso gli stessi che, passato l'entusiasmo iniziale, spariscono. Tornano a Roma, a Milano, all'estero. Lasciano progetti incompiuti, promesse mancate, disillusioni.
Chi invece costruisce davvero – le associazioni che tengono vivo il tessuto sociale, gli artigiani che tramandano i mestieri, gli operatori culturali che organizzano eventi senza budget milionari, i ristoratori che difendono la cucina tradizionale, i Facchini che portano Santa Rosa – raramente critica.
Perché chi lavora seriamente non ha tempo per lamentarsi. Fa, non parla.
🛡️ Conclusione: l'orgoglio discreto
Viterbo non ha bisogno di essere "svegliata". Non ha bisogno di salvatori che arrivano da fuori con la soluzione pronta. Non ha bisogno di rinnegare la propria identità per inseguire mode passeggere.
Ha bisogno, semmai, di riconoscere il valore di ciò che già possiede: una storia millenaria, tradizioni vive, eccellenze culturali e enogastronomiche, un tessuto sociale ancora coeso, una capacità di resistenza culturale che è una forma di saggezza.
Ha bisogno di chi ascolta prima di parlare. Di chi studia prima di giudicare. Di chi costruisce invece di criticare.
I viterbesi capiscono benissimo. Capiscono chi viene per fare davvero e chi viene per fare scena. Capiscono la differenza tra un progetto solido e un fuoco di paglia. Capiscono che la fretta è nemica della qualità.
La loro diffidenza non è chiusura mentale: è intelligenza storica.
E forse, in un mondo che corre sempre più veloce verso il nulla, la vera rivoluzione è proprio questa: resistere.
Resistere alla superficialità.Resistere all'omologazione.Resistere alla fretta.
Conservare, tramandare, proteggere ciò che ha valore.
Andare piano, ma andare lontano.
Come Viterbo ha sempre fatto. Come farà ancora per secoli.
Giano di Vico per Viterbolandia




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